La bicicletta di Bruno [Cuento en italiano]

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Traducción al italiano de La bicicleta de Bruno, realizada por Valentina Lancella. Apareció en el libro de cuentos Tan nítido en el recuerdo (2001).

Puedes descargar aquí el cuento en PDF.

HO AVUTO LA FEBBRE GIANNA, la febbre alta. Ho un’altra febbre come questa di molti anni fa Gianna, perciò non posso tacere, non te l’ho mai detto ma devi saperlo adesso, ho la febbre Gianna non capisci? È come la puntura di un insetto. Senti qualcosa, qualcosa di piccolo, talmente piccolo che sembra poco importante, ma che ti da un po’ fastidio, che si infiamma, che ti fa male Gianna, che ti fa male perché non sei così pulito come pensano gli altri ed in questa fottuta febbre tutto torna, amore, tutto ritorna.

Sono stato io Gianna.

No, non voglio tacere. È ovvio che mi fa male la testa, le ossa e gli occhi. Oggi quando sono uscito dall’ufficio, ho dimenticato l’ombrello sulla scrivania. Ovviamente pioveva, pioveva molto, ma ora voglio raccontarti Gianna, voglio parlarti perché la febbre mi soffoca e sento un ragno che mi cammina nella gola. Devo parlarti, devo parlare perché l’aria si sta facendo molto umida, posso a stento inghiottirlo, ci riesco appena Gianna, ma sono stato io. Sono stato io, lì nella strada 12 numero 3, nella casa azzurra, nella casa vicino alla tua.

Sono io che salto nel giardino, che trovo un rospo e resto paralizzato nel vedere i suoi occhi gonfi, come un sacco che sta per esplodere. Sono stato io. Allora allungo le mani e mi ripugna la sensazione della sua pelle ed è come se qualcosa di freddo mi bruciasse le dita. Non ti è mai successo Gianna? Entro a casa correndo e resto in silenzio, ma già durante la notte mi viene la febbre. Grido perché il rospo si sente nel giardino che gracida, che salta tra i cespugli e gli arbusti. E qualcosa simile al vetro, alla brina, si sparge sulle mie braccia, sulle mie spalle. Allora mia madre mi cambia la camicia impregnata di sudore e mi chiede di dormire. Mio padre mi mette le mani gelate sulla fronte e mi chiede di dormire, tu mi abbracci e mi chiedi di dormire, ma no Gianna, non insistere, non voglio tacere, devo parlare, loro non vogliono che stia zitto perché se lo faccio il rospo resterà lì, davanti alla porta dell’appartamento e lì starà anche il ragno attaccato ai miei denti, che salta tra i miei molari, aspettando che io smetta di parlare per lanciarsi nella mia gola e soffocarmi.

Sono stato io, ormai te l’ho detto. Sono stato io papà, io che adesso ho la schiena e le gambe doloranti. E mi trovi così Gianna, le orecchie piene di bolle, le palpebre gonfie. E poi mi porti in camera e quando mi rimbocchi le coperte dici che sto male.

Ma come riesci a stare così, accanto a me, con quegli occhi e quella lunga chioma, e quel corpo così bianco e nudo? Sei arrivata da pochi mesi. Ti vidi dal giardino, o chissà ti distinsi appena perché eri una piccola ombra alle spalle di tua madre. Ti abbiamo visto tutti e qualcuno disse che la via si sarebbe popolata di emigranti perché quando ne arriva uno poi arrivano tutti.

Perciò non posso tacere Gianna.

Sento dal cortile le voci acute, quel suono che avete voi quando parlate, come di un vento che soffia tra le bottiglie. Ma no. Tu sei nata un anno fa. Sono loro, i tuoi genitori, i tuoi fratelli che parlano, ridono, gridano ed io li imito prendendoli in giro perché mi sembra che nessuno possa capirsi usando quelle parole così strane.

Col passare delle settimane tuo fratello Giuseppe inizia ad uscire in strada e a guardarci da lontano, come se volesse unirsi a noi. Ma è così opaco, così pallido, così mal vestito Gianna, ed inoltre, non parla spagnolo e quando un giorno ci si avvicina lo circondiamo tutti e iniziamo a spingerlo, gridandogli di andare a mangiare spaghetti e a lui gli diventano gli occhi rossi ma senza piangere e quando si gira per andarsene vedo che porta dei pantaloni molto grandi, dei pantaloni che non possono essere suoi ed inizio a dirgli: culo largo, culo largo, culo largo e poi gli do un calcio. Allora lui comincia a correre e tutti lo inseguiamo fino a che riesce a nascondersi a casa sua Gianna, lì dove tu dormi, dove piagnucoli.

Sono stato io Gianna, sono sempre stato io.

Sono io quello che grida di più, quello che più corre con la bicicletta quando tuo fratello esce per fare la spesa e noi lo rincorriamo per lanciargli le pietre.

Ma Giuseppe è veloce e ogni volta conosce meglio il quartiere. Riesce a nascondersi, a squagliarsela Gianna, e qualche volta ride persino di noi quando ci corre accanto e non si fa prendere nemmeno da una sola sassata.

Tu esisti appena Gianna, ti sento a volte dalla mia stanza: un gemito, un mormorio, ma inizi ad uscire in strada solo quando ormai cammini e Giuseppe ti prende per una delle tue piccole mani. E così arriva il giorno in cui vi vediamo camminare insieme ed io mi lancio con le tasche piene di pietre ad inseguirvi, ma vedo che nessuno dei miei amici mi accompagna, allora li chiamo, li animo, ma nessuno mi segue «cazzo, sta con la marmocchia» e infuriato mi metto davanti a voi due e lancio una sassata che salta sui tuoi piedi e alza la polvere. Allora tuo fratello ti prende in braccio ed inizia a correre tra gli alberi, scivolando dietro le macchine, saltando i fossati. Giuseppe è agile ma ora la sua velocità diminuisce perché deve stare attento a non farti cadere, così io ne approfitto per puntare le mie pietre. Lo prendo una, due, tre volte ed un suono come di tamburo scuote la sera.

Però mi fa male la testa Gianna. E tuo padre non lo vediamo quasi mai. Tu mi dici, è ovvio, lavorava in una fabbrica di vestiti dodici ore, tutta la notte, è ovvio, ed il giorno dormiva un po’ per dare i numeri della lotteria e fare riparazioni elettriche. E un giorno di fronte a casa vostra appare la macchina: un Volkswagen rosso brillante, un nuovissimo Volkswagen.

Molta gente lo prese con sorpresa, con rabbia. Il Volkswagen in mezzo alla strada era come un insulto, una provocazione per tutte quelle vecchie macchine puzzolenti di olio bruciato, di fumo, di fritture, di sudore che uscivano ogni mattina dalle altre case. Sono stato io Gianna, sono stato io quello che sgonfiava le gomme ogni venerdì con una piccola chiave molto sottile, quasi un fil di ferro e sentiva il fischio, un soffio leggero, un’agonia molto dolce.

Perciò mi affacciavo a vedere il tuo papà ogni sabato. Silenzioso, che si guardava intorno per scorgere l’artefice del misfatto. Le sue braccia pelose e le sue grosse mani davano un colpo qui, un colpo lì, mettevano una toppa fino a che il Volkswagen non era di nuovo in piedi, su quattro ruote nere, splendenti.

Ma trovo il rospo nel giardino Gianna, lo trovo, e ho pensato persino di cacciarlo nel vostro cortile per sentire le grida delle tue sorelle, sentirle tutte e due, pallide e meravigliose con quelle grosse bocche, con quel modo di camminare ondeggiante, con quei sederi alti, orgogliosi di loro stessi, con quei fianchi assassini che facevano strage per strada ogni volta che uscivano a passeggio. Allora stavamo zitti, mio padre, i vicini, gli alberi, le case, i lampioni della strada, il cielo, le nuvole, il mondo intero stava in silenzio per vedere come le tue sorelle percorrevano la strada 12 fino ad arrivare all’Obelisco. Ed era il mio futuro che si proiettava, perché così avresti camminato tu quindici anni dopo, sinistra destra, sinistra destra, per te per me per te mio bel faccino, spremendo il mio cuore ad ogni passo, con quei pantaloni, con quei capelli lunghi e castani.

No Gianna, non sto zitto, non mi dire che persino con la febbre voglio abbracciarti, che persino con la febbre. Perché sono stato io Gianna, sono stato io, e la nonna e tuo padre e tua mamma che mi abbracciano il giorno del nostro matrimonio, senza sapere che sono stato io Gianna, sempre io.

Perché afferro il rospo con la mano e sento un brivido.

Qualcosa di simile alla consapevolezza che qualcosa non va, che devo scappare, devo fuggire. E durante la notte è la febbre, sono la febbre, cosicché mia madre prenda dell’acqua fredda per mettermi dei fazzoletti in testa. Ma io mi agito. Dopo alcuni giorni tuo fratello mi guarda, senza lasciarti la mano si avvicina e mi tira una botta che mi scaglia contro la parete. Resto lì Gianna, che li odiavo, giurando di bruciare la tua casa, di rompere i vetri delle finestre. E ancora adesso sento le sue grida, lo sento giocare a football con i miei amici, ridere con loro e saltare e nessuno mi sta a sentire quando dico di tirargli le pietre perché Giuseppe ha appena finito di fare un gol di mezza rovesciata, e non solo parla uno spagnolo perfetto, ma lo sento esprimersi nel nostro dialetto stretto, strettissimo. Ho la febbre Gianna, ehiragazzino guardamiedammilapalla. Ho la febbre Gianna, nonsaigiocare èinutileallora. Ho la febbre Gianna ma dico a mamma che devo scendere in strada perché Giuseppe fa un altro gol Gianna. Ormai i miei amici non vorranno più giocare con me. Ho la febbre ma devo uscire sebbene il rospo stia fuori e il ragno cammini nelle mie gengive e voglia chiudermi la gola.

Così, visto che non miglioravo mi misero la televisione. All’inizio la guardavo un po’. Nel mezzo dei tremori sembrava rasserenarmi l’odore mentolato della stanza, il sapore della pepsi-cola, ma il rospo stava fuori, e tornava l’ardore negli occhi, l’infiammazione della gola. Tornano. Mi fa male tutto il corpo e tu sei così bella, così nuda Gianna, cammini in maniera così bella, cammini come Sofia Loren che paralizza il traffico di Roma, che toglie il respiro a Mastroianni ed io la vedo, tutta curve, tutta occhi, tutta bocca, tutta intera, ma sono piccolo, non so chi è Loren né chi è Marcello, né so cos’è Roma perché ho la febbre e in televisione stanno dando un ciclo di cinema italiano.

Poi mi addormento. Qualcosa accade in un commissariato, prendono tazze di caffè, la Loren si rade appena, ed anche se è orribile continua a piacermi il modo in cui cammina, e mi dici che lì si usava farlo, ma che tu ti sei sempre rasata, allora io ti amo, ma mi brucia la testa, mi scoppia il petto, io ti amo Gianna, ti amo, ma mamma mi mette la fecola di patate sulla fronte mentre tremo sotto le coperte.

Giuseppe deve ormai aver fatto quaranta gol questo pomeriggio; cento, duecento gol. Adesso in mezzo all’oscurità, all’alba la strada continua a rimbombare dalle pallonate. Ma è una bugia, domani quando uscirò non potrò più inseguirlo. Tre giorni fa ci siamo picchiati di nuovo, l’ho colpito un paio di volte Gianna, ed anche lui è riuscito a spingermi, ma quando ci hanno separati, i miei amici non si sono messi a ridere, non hanno parlato, qualcuno mi ha detto addirittura di aspettare che il Musiù stesse di spalle per scappare e nessuno ha detto più nulla, ma io sapevo che quel silenzio, che quei volti seri …

Stiamo così Gianna, una buccia di banana sulla testa, un sapore di terra secca nelle gengive, e mia madre che mette l’acqua gelata in una bacinella per immergermi qualche secondo. Verrà il dottore. Lo so. Non lo chiamare. Che mi farà l’iniezione. Non lo chiamare. E quelle mani gialle, quell’odore di iodio, quella voce rauca. Non lo chiamare Gianna, che il rospo sta sulla porta, il rospo vuole entrare. Te lo giuro Gianna, i ragni pendono dal soffitto e camminano, camminano per lanciarsi tra i miei denti e soffocarmi.

Così fino a quando mettono un altro film. Un uomo attacca manifesti alle pareti, poi prosegue su una bicicletta e attacca altri manifesti. Credo di chiudere gli occhi, credo di addormentarmi, ma arriva qualcuno e gli ruba la bicicletta. L’uomo corre, corre. L’uomo corre disperato.

Non riesco Gianna, non riesco a calmarmi. L’uomo corre, corre moltissimo fino a che si rende conto che è impossibile raggiungere il ladro. E allora capisco che l’uomo lavora con quella bicicletta, che senza patirà la fame, che senza non può fare nulla, non vale nulla, che senza la sua bici la vita è una merda, allora piango un po’ e mamma non capisce.

Le strade sono opache, la gente è un’ombra. I bambini portano i pantaloni molto grandi come Giuseppe quando arrivò. Lì vedo quell’uomo che camminava con tuo fratello. Lì c’è l’uomo che insegue la sua bicicletta in mezzo ad una città in bianco e nero, tristissima, popolata da volti gracili, ossuti. Ma la bicicletta non c’è e tuo fratello, che ora si chiama Bruno, cammina per mano con quell’uomo che ha la paura negli occhi.

No Gianna, non è la febbre, non mi mettere la mano tra le gengive, tuo fratello quel giorno si chiamava Bruno, ed era lì in televisione, era lì che camminava con quei pantaloni immensi che deve aver ereditato da tuo padre, e allora sbuco io ed inizio a prenderlo a calci: culo largo, culo largo, culo largo. Ma resto paralizzato qualche secondo perché vedo che quell’uomo e tuo fratello camminano tristissimi, chiedendo, correndo per le strade piene di biciclette di altri. Allora li seguo per un isolato e non continuo a gridare culo largo culo largo perché mi sembra che Giuseppe non capisca che adesso tutti voi morirete di fame.

Alla fine sembra che tuo padre riesca a scoprire il ladro della bicicletta, lo prende, ma la gente lo difende. Cercano di linciare tuo padre Gianna, lo picchiano. Allora Giuseppe chiama la polizia, ma il mondo è fatto di quei volti pieni di febbre, quegli occhi di gesso, quelle mandibole affilate, quelle pelli di sudore e cipolla. Tuo fratello Bruno si porta tuo padre Gianna. Si, non insistere Bruno, Bruno, Bruno nella strada 12 che fugge dalle mie sassate e che cerca di far recuperare la bicicletta a tuo padre.

Perché sono stato io, ormai te l’ho detto. Sono stato io. Una settimana prima aspettai che tutto il mondo si addormentasse, e andai verso il Volkswagen, cercai di forzarlo e con molta cautela svuotai mezzo chilo di zucchero nel motore. Allora la mattina mi svegliai con gli strilli di mio padre: c’è gente bastarda al mondo, rovinare così il povero italiano, gridava, e quando mi affacciai vidi tutti voi intorno al Volkswagen, come se stavate guardando un corpo gonfio portato dal fiume. Lì c’era tuo padre, seduto sul marciapiede, con il viso assente e gli occhi di vetro. «Non importa— diceva— non importa» e colpiva l’asfalto con una chiave. Ti rendi conto? Bruno e tuo padre desolati. Allora, nel bel mezzo della disperazione, tuo padre viene colpito da una stranissima serenità; la serenità dell’agonia e dice che la vita non può essere così male, che bisogna avere fiducia nel fatto che troveranno la bicicletta, e poi i due si fermano in un ristorante. Lui chiede un po’ di vino e Giuseppe si mangia una mozzarella in carrozza. Ma avresti dovuto vedere la faccia di tuo padre in televisione: una faccia in bianco e nero, e fuori si vede il Volkswagen rosso, inutilizzabile, pieno di polvere con il motore distrutto Gianna, perché sono stato io Gianna, sono stato io.

E da allora non ricordo niente di più triste, niente di più devastante della faccia di tuo padre davanti al suo Volkswagen o Giuseppe che passa uno straccio sui vetri senza sapere molto bene il perché. Non lo vedi Gianna? Perciò odio la mozzarella in carrozza, perciò non riesco a mangiarla con loro, perché lì c’era Giuseppe, come uno che dice addio a qualcosa, come chi assiste ad un finale, ad una chiusura. Cazzo Gianna, e in quel momento erano tuo padre e tuo fratello Bruno che camminavano per Roma, rovinati per sempre, piccoli, molto piccoli.

Perciò che pensi che è la febbre. Mamma mi da una nuova pasticca, papà chiama il medico, e tu credi che si tratta della febbre. Mi prendi la temperatura e ti vedo con gli occhi socchiusi che guardi la linea di mercurio nel termometro. Non lo chiamare, non lo chiamare, mormoro, e poi non so bene cosa succede eccetto che sto piangendo, piango molto, e loro si spaventano, ma il fatto è che Giuseppe e tuo padre camminano distrutti, prendendosi per mano. Non lo vedi? Mai e poi mai potrò assaporare la mozzarella in carrozza che tuo fratello mangiò quella sera. Lì camminano entrambi, sembrano una macchia di umidità che fluttua sull’asfalto, con la macchina rossa sullo sfondo.

Così quando albeggiò, mia madre si addormentò ed io mi metto in piedi. Mi tremano le ginocchia, mi fanno male. Il mio corpo è una sacca d’aria, un fuoco.

Riparato dalla coperta, esco in strada. Credo di non aver mai visto tante stelle in cielo. Un cielo limpido, come appena lavato. E la brina mi penetra nelle ossa Gianna. Ma senza pensarci avanzo, avanzo e quando arrivo di fronte a casa vostra mi fermo davanti al cancello. Mi manca l’aria Gianna. Mi pesa respirare, ma sento che la febbre e il canto dei grilli mi fanno sprofondare in un gradevole sopore. Mi addormento, poi apro gli occhi e allora appare mamma, vuole portarmi a casa e mi prende in braccio. Le grido di no Gianna, di lasciarmi, di aspettare per favore che voi accendiate le luci, che Giuseppe esca dalla finestra e si accorga che gli ho lasciato la mia bicicletta nel giardino, che possa vedere come brilla nel mezzo della notte, che possa vedere la bicicletta Gianna. Ma mamma mi porta in braccio, e mio padre arriva dicendo qualcosa del medico. Allora grido, il rospo mi guarda con i suoi occhi immensi, ma nessuno mi sente, grido varie volte, e chiedo di lasciare la bicicletta nel giardino di Bruno, che la lascino lì Gianna. Allora mio padre, senza capire quello che succede, la mette di fronte a casa tua. E lì risplende sotto la luna. Chiamo tuo fratello, chiamo tuo padre perché la vedano e non continuino a camminare per Roma desolati, ma nessuno mi ascoltò amore, nessuno sentì, persiste solo un ragno che cammina nella mia gola cercando di affogarmi. È che sono la febbre amore, sono solo la febbre.

Mi abbracci col tuo corpo pieno di curve pericolose come quelle della Loren. Ma la bicicletta sta sotto la luna e so che Giuseppe la vedrà domattina. Starà lì la bici affinché non ci sia più Roma, né angoscia, né bianco e nero, né Volkswagen rosso, né mozzarella. Ma io sono la febbre amore, sono solo la febbre e la bicicletta sta lì, e nemmeno loro hanno capito, tu non hai capito che è un segnale, una richiesta di scuse, un segno incomprensibile e fugace come la febbre Gianna, come quella febbre.

Per far sparire i rospi amore.

Per far si che una volta e per sempre non ci siano più ragni.

 

Madrid, 2000  

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